Ciao e bentrovatə!

Oggi vorrei raccontarti un’esperienza che ho vissuto qualche settimana fa.

Aspettavo il mio turno in farmacia, e davanti a me c’era un signore sulla settantina: sbuffava spazientito come una moka, e controllava in modo ossessivo l’ora, nella vana speranza che il tempo si fermasse. Era di corsa, forse in ritardo, e di sicuro non voleva essere lì. Trasmetteva agitazione solo a guardarlo.

Finalmente è arrivato il suo turno e mi sono sentita sollevata per lui, perché da lì a poco sarebbe stato libero di correre verso la sua destinazione.

La farmacista gli ha infilato con delicatezza il farmaco che gli occorreva in una bustina, e gli ha indicato la cassa automatica per pagare, proprio di fianco a lui.

Di tutta risposta, il simpatico signore ha iniziato a protestare, alzando la voce e pretendendo di non usare il maledetto aggeggio elettronico alla sua sinistra. E non sentiva ragioni, eh. Voleva a tutti i costi che la povera farmacista prendesse i suoi contanti, senza fare troppe storie.

In quel momento era tutto un po’ surreale, e mi sembrava di essere nei film, quando percepisci l’attesa vibrante prima del colpo di scena.

Dietro il bancone, la professionista in camice bianco ha sfoderato un bellissimo sorriso e gli ha spiegato, con calma e garbo, che per motivi di igiene non poteva farlo, invitandolo nuovamente a inserire i contanti nella macchina dedicata al pagamento.

Il cliente è rimasto spiazzato, ha chiesto scusa e con la coda tra le gambe ha eseguito scrupolosamente le istruzioni, inondandola con una pioggia eccessiva di “Grazie” mentre si affrettava verso l’uscita.

Avevo appena assistito a una manifestazione del potere della gentilezza che, con discrezione, aveva neutralizzato un comportamento molto maleducato.

Ho pensato: “Wow, che meraviglia!” e, quando è stato il mio turno, mi sono complimentata con la farmacista per come aveva gestito la situazione.

Per me è stata l’ennesima riconferma che la gentilezza è una forza magica, eppure radicale. Scava, sposta, cambia, senza ferire. Sa ascoltare, costruire e guarire.

È un superpotere trasversale: abbraccia il linguaggio, si coltiva nei gesti, può guidare il nostro modo di essere o di lavorare.

Essere gentili è una scelta, e spesso richiede tanta pazienza e fatica. Perché diciamocelo: non sempre abbiamo le energie per rispondere con gentilezza all’impazienza, alla maleducazione, alla frustrazione e all’arroganza, solo per citare qualche esempio.

Proprio come noi, anche le parole che usiamo possono essere gentili: scegliere un linguaggio che non graffia significa rispondere con lucidità e misura, anche quando l’istinto ci suggerisce il contrario.

E, quando la nostra comunicazione sceglie la via della gentilezza, il tono si abbassa, le difese scendono, e l’ascolto trova spazio.

Una comunicazione gentile spiazza, perché va contro le aspettative, soprattutto in contesti dove ci aspettiamo risposte difensive, reattive o fredde. Ma perché funziona così bene?

Innanzitutto, quando una persona teme (o cerca) un confronto acceso, rispondere con gentilezza crea uno scarto. È un gesto che dice: “Io non gioco a questo gioco.”

Inoltre, una comunicazione gentile mostra ascolto, rispetto, vicinanza.
In un mondo che corre e urla, questo è sorprendente.
E spesso, davanti a una risposta gentile, la maggior parte delle persone tende ad ammorbidirsi.

Infine, un messaggio gentile parla alla nostra parte razionale ed empatica. E, invece di alzare barriere, apre porte, crea ponti e rallenta i giudizi.

Insomma, la gentilezza, nella voce o tra le righe, ha un suono morbido, un profumo di tregua e un gusto rotondo. È presenza consapevole, equilibrata, che lascia il segno.

Ecco perché credo che la gentilezza sia rivoluzionaria: essere gentili quando potremmo non esserlo richiede forza, calma, padronanza di sé.
Se riusciamo a farlo, comunichiamo autorevolezza senza aggressività.

E se provassimo a tradurre tutto questo in piccoli rituali quotidiani di comunicazione gentile? A scrivere messaggi che non pungono, ma accarezzano?

Basta una pausa prima di inviare.
Fermarsi e rileggere.                                                                                      Una parola meno tagliente. Un tono meno affilato.                                      Smussare gli angoli, per fare ancora più breccia.

Perché la gentilezza — quella vera, senza maschere — non è debolezza: è direzione.

Grazie mille per avermi dedicato il tuo tempo e per aver letto questo articolo. Ci rileggiamo presto!

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